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Marina Salamon: la vecchia leadership non funzionerà più

Marina Salamon aveva ventitre anni, quando ha fondato Altana, tra le maggiori aziende europee di abbigliamento per bambini nel segmento del lusso. Negli anni ha fondato, amministrato o acquisito in partecipazione numerose società tra cui Doxa, leader in Italia nelle ricerche di mercato, Connexia, tra le più grandi società italiane di comunicazione digitale e Alchimia Energy, società che ha costruito e gestisce parchi fotovoltaici ad energia solare. Ha fatto parte del comitato Ambiente di Confindustria ed è stata consigliere internazionale per il WWF con delega per la gestione del patrimonio, del personale, della finanza e per l’elaborazione del budget. È consigliere d’amministrazione di Illy Caffè e di Morellato & Sector. Oltre all’impegno volontario e gratuito svolto nel WWF, la Salamon utilizza una parte del proprio tempo mettendosi a servizio, da volontaria di diverse associazioni non profit, che sostiene.

Marina Salamon, ha senso, nel business di oggi differenziare il ruolo della donna da quello dell’uomo?

La differenza non è poi così profonda. Il problema di emergere, e quindi della leadership, delle donne in Italia sono simili a quelli dei giovani. Intelligenza e stupidità sono egualmente diffuse tra giovani, vecchi, uomini e donne. Così come l’etica. Se invece mi parli di uno stile di leadership, al femminile, allora questo stile c’è e ne parlerò al corso di Leadership di Performance Strategies.

Ti anticipo – e lo dico da madre di 4 figli maschi – che gli uomini sono capaci di grande sintesi e semplificazione, valore che le donne devono imparare. Io credo molto alle squadre miste di lavoro: quando una squadra o una famiglia è troppo in un direzione o nell’altra vengono fuori i problemi. Gli uomini hanno il problema del tirare un po’ via che però diventa un valore quando diventa capacità di semplificare. Le donne hanno il problema di essere capaci di grandi analisi, ma ogni tanto si “specchiano” un po’ troppo. E mi accade di dire “Non mi fare la femmina, stringi”. Guai se lo dicesse un maschio al posto mio.

Su questo sono abbastanza equidistante, ti racconto questo episodio: qualche settimana fa ho fatto una riunione con una trentina di dirigenti di Doxa, e ho detto “che bello siamo circa metà e metà”. È diventato ancora più bello quando una donna che ha perso il marito da poco ha chiesto di poter prendere un treno per tornare a Roma dai figli e cinque minuti dopo è andato via un uomo che ha avuto in affido suo figlio piccolo. Non aveva ancora le deleghe per la tata, e si è quasi scusato, mentre tutti lo hanno salutato con un applauso. Questa è l’azienda che voglio io.

Il suo mantra è ancora “The best is yet to bye”

Assolutamente, è una frase bellissima. Io mi fido della vita, grazie anche ad una profonda fede religiosa, dove però non penso che ci sia un Dio speciale nostro. Penso che sia lo stesso chiamato in tanti modi in tutti i luoghi del mondo.

Parliamo del tuo rapporto con la solidarietà di cui so che non parli molto volentieri. So che preferisci fare.

Diciamo che c’è una buona quota del mio tempo che è dedicata alla solidarietà. Non sono sola però. Non sono solo gli americani che fanno le grandi scelte tipo Bill Gates o Zurkerberg e ci danno un esempio meraviglioso. Proprio oggi ho fatto una riunione con un bravissimo imprenditore (fa io nome ma mi chiede di non citarlo ndr) in cui abbiamo messo insieme due nostri progetti per le associazioni. Tutti e due, nella vita, abbiamo figli in affido, abbiamo una serie di valori che ci uniscono, non c’è nessuna ideologia dietro e magari ci sono molte cose in cui siamo diversi, ma il sogno di fare qualcosa al di là della produzione di denaro è grande, E non è interpretato alla vecchia maniera “ti stacco un assegno e siamo a posto”. Stiamo lavorando sull’offrire spazi ad una serie di associazioni benefiche da mettere in coworking vicine agli spazi di lavoro, mescolandole in maniera che i due mondi si incrocino. L’altro progetto è dotarli di una comunicazione e di un marketing ad altissimi livelli, lì dove fanno fatica, magari, a fare da soli.

 

Come si superano i momenti difficili?

Con disciplina. Possiamo scegliere di autocompiangerci e pensare quanto il mondo sia cattivo con noi oppure possiamo ricavarne ancora più energia e voglia di combattere, e io sono per la seconda strada. Se sono triste, mi butto a lavorare ancora di più, perché intanto supero l’emergenza. È un’ottima prassi, il contrario di quello che fa chi scappa dal problema. Io seguo il cuore e l’istinto, nel lavoro e nella famiglia, ma non è che penso di aver sempre ragione. Dopo aver preso una decisione, la discuto e me la contesto da sola. E se ho sbagliato lo dico a voce alta, sia con i collaboratori che con i figli.

C’è una grande dose di umiltà in questo

Sono molto a favore della trasparenza: essere umili o dire “sono imperfetta, ma mi perdono” non indebolisce la leadership, è una nuova frontiera della leadership. Su questo non conosco l’orgoglio. Sono rompiscatole, irruenta, dura ma chiedo scusa senza paura.

Torniamo alla leadership: un leader moderno come deve essere?

Infinitamente curioso.
Infinitamente flessibile.
Infinitamente capace di continuare a imparare

La vecchia leadership delle imprese industriali non funzionerà più.

Quanto è difficile coniugare il ruolo di manager con il senso etico, il rigore e la meritocrazia?

Non è difficile, è necessario. Perché il mondo va in questa direzione. Quello anglosassone da sempre, ma io penso che stia accadendo anche in Italia. Nel concreto penso che la crisi ha contribuito a selezionare un po’ di furbi, ed escludere i non meritocratici. Se non sei veramente un’azienda buona e solida non riesci a stare in piedi, questa è già una selezione meritocratica che si applica alle aziende ma a mio parere anche all’interno delle aziende. Io credo ad un mondo in cui se sei bravo porti dei risultati, se non sei bravo prima o poi non può girarti giusta.

Facciamo un passo indietro, lei è laureata in storia: questa laurea le è servita nel suo percorso e nella sua professione?

Ho conseguito la mia laurea un bel po’ di anni dopo, avendo cominciato a lavorare che ero ancora all’Università. Ho stretto i denti, ho dato gli esami e un po’ di anni dopo ho scritto la tesi che è diventato un libro benefico. Adesso sono iscritta a teologia, perché amo studiare. Studiare storia mi è servito molto perché mi ha insegnato a fare ricerca, a non prendere un’unica verità come data, definita, precostituita, ma ricostruire la verità. Avendo imparato a lavorare sulle fonti antiche ho imparato che vincono le aziende dove si rimescolano culture diverse: il mondo del passato, quello dei soli laureati in economia, non ci sarà più. Allo stesso modo in cui non andrebbe bene essere tutti ingegneri. O non andrebbe bene essere tutti umanisti. Il bello del mondo nuovo, del digitale, è proprio la ricchezza di tante storie nuove.

Che farà Marina Salamon da grande? Ancora l’imprenditrice?

Quello che so è che continuerò a lavorare tanto, forse sempre di più per il non profit. Non ho più molta voglia di lavorare solo per il denaro. Il sogno è costruire una fondazione che vada a sperimentare progetti di utilità sociale. L’altro mio sogno è tornare a studiare, ma senza mai rinunciare ad intraprendere, ad incuriosirmi. Se vedo un progetto che mi incuriosisce voglio conoscere chi l’ha ideato. Se fossi più sognatrice ti direi che vorrei più tempo per leggere, ma vorrei più tempo per fare, non necessariamente per denaro. Non importa fare cose prestigiose, l’importante è non ripiegarci su noi stessi, che è un rischio della nostra società. Quello di essere più soli e più chiusi. Non possiamo permettercelo.

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