“Per scatenare il talento, individuale e collettivo, i leader devono coltivare un clima di sicurezza psicologica in cui i collaboratori si sentano liberi di contribuire con le proprie idee, di condividere informazioni e segnalare errori.”
– Amy C. Edmondson
Sicurezza psicologica: un obiettivo imprescindibile per crescere
Vale per qualsiasi settore industriale e, più in generale, per qualunque tipo di organizzazione: se la responsabilità, nonché la volontà, di un leader è quella di spronare la crescita individuale e collettiva, raggiungere la sicurezza psicologica in azienda è un obiettivo imprescindibile.
Come abbiamo già approfondito in un precedente articolo, la sicurezza psicologica è infatti la base strategica che consente una circolazione più efficace delle idee, portando benefici a tutti gli aspetti dell’organizzazione aziendale, dalla profittabilità all’engagement dei collaboratori, dalla riduzione del turnover all’evoluzione dei processi produttivi e manageriali.
Una forza lavoro sempre più eterogenea
Tra il dire “sicurezza psicologica”, però, e l’instaurare un clima in cui ogni persona, dai collaboratori più giovani fino agli executive nelle posizioni più apicali, vivano una situazione di sicurezza e libertà, ci sono numerose complessità.
Sono le complessità di una forza lavoro sempre più eterogenea, in cui i team possono essere non solo culturalmente molto diversi, ma anche generazionalmente sempre più distanti. E ancora, le complessità legate allo svilupparsi di situazioni geopolitiche che, a livello globale, sono così importanti da influenzare l’andamento dei mercati, le catene di approvvigionamento e i consumi in maniera rapida e brusca. Sono le sfide portate dall’entrata in campo dall’intelligenza artificiale e dalla necessità di aggiornare i modelli manageriali e di leadership, per avere un’impresa coesa e solida, in grado di crescere e restare competitiva.
Per fornire una guida utile a costruire sicurezza psicologica e gettare quindi le basi di una cultura aziendale innovativa, la studiosa Amy C. Edmondson, docente di Leadership e Management alla Harvard Business School, pioniera degli studi in materia, ha messo a punto un “toolkit” di strumenti e best practice valide in ogni organizzazione e settore.
Prepara il terreno: ridefinire obiettivi, lavoro e visioni
Prima ancora che si possa instaurare sicurezza psicologica, suggerisce la studiosa, oggi al primo posto della Thinkers50, la classifica che raccoglie i business thinker e gli esperti di management più rilevanti del momento, occorre “preparare il terreno” realizzando alcune condizioni in cui questa nuova atmosfera possa svilupparsi.
Qualsiasi azione un leader intraprenda per portare le persone sulla stessa lunghezza d’onda, coinvolgendole in obiettivi comuni e mostrando apprezzamento, stanno preparando il terreno perché germogli sicurezza psicologica.
L’abilità che permette di compiere con efficacia queste azioni è la capacità del leader di “ridefinire il lavoro”, cioè di comprendere e impostare la giusta interpretazione degli obiettivi individuali e aziendali.
A questo proposito Edmondson fornisce alcuni esempi: se l’obiettivo è ottenere un prodotto ai limiti della perfezione per i clienti, chi è alla guida dell’azienda dovrà essere in grado di far sì che chi si occupa del processo produttivo possa cogliere e correggere imprecisioni ed errori lungo la catena di montaggio. Se gli obiettivi sono la ricerca scientifica e la scoperta di nuove cure, il leader dovrà motivare i collaboratori a produrre e testare nuove ipotesi e idee, gestendo con equilibrio e consapevolezza le possibilità di errore e di fallimento insite nella sperimentazione stessa.
Ridefinire il fallimento e la perfezione
La paura di sbagliare, nello specifico, è un cartina al tornasole del livello di sicurezza psicologica: proprio per questo, il modo in cui i leader sono in grado di ridefinire il ruolo del fallimento è essenziale.
Finché la possibilità di sbagliare non diventa una parte del processo, e finché non è percepita da tutti come una fase psicologicamente sicura da affrontare, i collaboratori cercheranno di evitare qualsiasi cosa che li possa esporre al rischio di errori, inibendo lo sviluppo di potenziale e la produzione di innovazione.
“Non sono pro-fallimento, sono pro-apprendimento” è il motto adottato, ad esempio, da Astro Teller, il co-fondatore e CEO di Google X, la moonshot factory tecnologica di Google, nota per le sue attività di ricerca e sviluppo di tecnologie innovative. L’unico modo per far sì che le persone intraprendano progetti importanti, ma rischiosi, è “spianare la strada”, rendendo il percorso più facile e sicuro. E per farlo, argomenta Edmondson, è necessario che il leader si esprima, tramite azioni e parole, in modo esplicito, chiaro e credibile, come Teller.
Ridefinire il fallimento, dunque, significa anche ricontestualizzare il concetto di perfezione, una condizione non necessaria perché si inizi a sperimentare un nuovo progetto. Anzi, spesso i prototipi, le idee in nuce, le bozze iniziali, per quanto imprecise, goffe e immature, spesso sono pezzi vitali di informazioni che danno vita a decisioni e versioni definitive di successo.
La ricontestualizzazione, va da sé, non è un’azione una tantum, ma un processo a cui Edmondson suggerisce di dedicare un focus continuo. Per un leader si traduce nell’impartire periodicamente la direzione, sollecitando i collaboratori a fornire input interessanti per correggerla e migliorarla in corsa, richiamando l’attenzione sull’importanza di un aggiornamento costante.
Invitare alla partecipazione
La seconda azione essenziale del toolkit consiste nell’invitare alla partecipazione in modo che le persone ne siano coinvolte e, allo stesso tempo, percepiscano l’invito a partecipare come autentico.
Spesso, nota la ricercatrice, l’asticella è troppo alta, o almeno così viene percepita. Le persone non si sentono a proprio agio tanto da esporsi, far sentire la loro voce, condividere nuove idee perché percepiscono una barriera all’ingresso. La tendenza a proteggersi dal rischio di fallimento e restare nella comfort zone, come dicevamo sopra, è naturale: per questo l’invito a partecipare deve essere esplicito ed estremamente chiaro.
Un comportamento, nello specifico, può aiutare a incarnare questo messaggio: l’adozione di un mindset che Edmondson definisce di “umiltà situazionale”.
Il potere dell’umiltà
In effetti, se il capo sembra già sapere tutto e avere la soluzione sempre in tasca, chi vorrebbe mai correre il rischio di imporre le proprie idee? In questo senso, un mindset improntato all’apprendimento che fonde insieme umiltà e curiosità, è un prezioso strumento in mano ai leader per mitigare il rischio di inibire la partecipazione dei collaboratori. Si tratta di un atteggiamento mentale disposto a riconoscere che c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare. Mindset che oltretutto si rivela particolarmente efficace in un contesto complesso, incerto e dinamico come quello attuale.
Adottare un mindset di umiltà situazionale implica anche riconoscere i propri limiti e gli errori di valutazione, senza che questo scalfisca in alcun modo l’autorevolezza della figura apicale. Sicurezza e umiltà, infatti, lungi dall’essere concetti opposti, si completano: essere sicuri di sé significa avere fiducia nelle proprie abilità, essere umili significa riconoscere – senza falsa modestia – che non sempre si hanno tutte le risposte, né la possibilità di prevedere l’imprevedibile.
Le ricerche oggi dimostrano che quando i leader son in grado di esprimere umiltà, la sicurezza psicologica che viene a crearsi fa sì che i team siano più predisposti ad assumere un atteggiamento proattivo, aperto all’apprendimento e all’innovazione.
Reagire in modo produttivo
In terzo luogo, per rafforzare il clima di sicurezza psicologica creatosi seguendo le precedenti best practice, è fondamentale che i leader, a tutti i livelli, rispondano in maniera produttiva ai rischi che i loro collaboratori hanno deciso di correre.
Rispondere in maniera produttiva, analizza Edmondson, si traduce in tre comportamenti principali: esprimere apprezzamento, rimuovere lo stigma del fallimento e sanzionare le violazioni.
L’importanza del riconoscimento
Riconoscere il lavoro e l’impegno altrui, a prescindere dal risultato, è in grado di influenzare in maniera significativa il coinvolgimento dei collaboratori: lo confermano ormai numerosissime ricerche, tra cui il famoso studio Mindset della docente della Stanford University Carol Dweck.
Quando le persone percepiscono che la propria performance singola è un indicatore assoluto delle proprie abilità o della propria intelligenza sono meno propense a correre rischi, temendo che il risultato possa sconfessare la loro capacità. Ma quando la performance è ricontestualizzata e concepita anche come l’espressione di impegno profuso e di una strategia, tentare nuove strade, perseverare nonostante gli ostacoli e i fallimenti diventa un processo entusiasmante.
In contesti “VUCA” (acronimo di instabilità, incertezza, complessità e ambiguità), riconoscere l’impegno è ancor più importante, secondo la ricercatrice di Harvard, perché si tratta di contesti ambigui in cui i risultati non sono semplicemente regolati da una relazione lineare di causa-effetto e in cui buoni processi possono non avere sempre esiti positivi. Al contrario, processi difettosi, causati da imprevedibili situazioni esterne, possono portare a buoni risultati, con un po’ di fortuna. Incentivare l’impegno e il coinvolgimento aiuta a far fronte alle situazioni in cui le best practice non danno l’esito sperato.
Rimuovere lo stigma del fallimento
Le reazioni produttive possono essere di varia natura: vanno da piccole espressioni di apprezzamento (“Grazie per aver condiviso la tua opinione”) ad azioni più elaborate come riconoscimenti o bonus, anche a fronte di “errori” se intelligenti.
Edmondson cita l’esempio dei “failure party” ideati dallo scientific officer di Eli Lilly, farmaceutica di fama mondiale, per celebrare quegli esperimenti che, pur fallimentari, erano stati di tale valore scientifico da costituire una fase importante dei futuri sviluppi. Queste occasioni al contempo aiutano a creare un clima di sicurezza psicologica e di consapevolezza sui rischi e, al contempo, sono strumenti che servono a portare l’attenzione sugli errori con la giusta tempistica, consentendo di individuare dove e come spostare risorse sui progetti più adatti, con risparmio di tempo e risorse. In terzo luogo, si tratta di occasioni a cui i collaboratori tendono a partecipare: in questo modo si parla dell’errore, si rende noto e si evita che l’azienda possa commetterlo di nuovo. Un errore è intelligente solo la prima volta che lo si commette.
Sanzionare le violazioni
Tuttavia, ci sono casi in cui un fallimento altrimenti evitabile è il risultato di un’azione ripetuta di deviazione dal processo prescritto, che non ha retto ai tentativi di prevenzione e riorientamento. In questi casi, solitamente rari, può essere utile il terzo comportamento, quello della sanzione, in un range che può andare dall’imposizione di “multe” o, in alcuni casi, persino il licenziamento.
Le reazioni produttive devono avere un impatto sul futuro: se i limiti erano molto chiari in anticipo, anche la sanzione può costituire un messaggio forte e appropriato, che sottolinea i valori imprescindibili dell’azienda. Occorre, tuttavia, prestare attenzione a non comunicare inavvertitamente che le opinioni diverse non sono tollerate, cosa che ridurrebbe la sicurezza psicologica, erodendo la qualità del lavoro.
Sicurezza psicologica, gestione del fallimento, crescita
Ridefinire le dinamiche dell’insuccesso per nutrire una cultura organizzativa che favorisce crescita, innovazione e attrazione dei talenti: un topic che, con l’intervento di Amy C. Edmondson, sarà anche centro della riflessione del Leadership Forum, il grande evento dedicato alla leadership e al management e che ospiterà sul palco alcuni dei più grandi business thinker internazionali. L’agenda del business event, tutti i dettagli e le modalità di partecipazione sono disponibili cliccando qui.