Parliamo di copywriting, cioè dello scrivere, ma non solo.
Se si trattasse soltanto di scrivere, le aziende potrebbero cercare i propri copywriter praticamente tra tutti i diplomati, per non parlare dei laureati, con un po’ di sale in zucca, che certo non mancano nel nostro bel paese. Ma scrivere non basta, come non basta per diventare un romanziere o un giornalista.
Bisogna innanzitutto saper scrivere, ma neanche questo basta, né per diventare un romanziere, né per diventare un giornalista, né tantomeno per diventare un copywriter pubblicitario.
In quest’ultimo caso, quello che ci interessa, serve in primo luogo una visione, ma una visione polimorfa, capace di incastonarsi come una pietra dentro all’incavo di un anello.
Perché da sempre il copywriter non lavora da solo: il suo estro va a congiungersi ed intersecarsi con un art director, o chi per lui. Chiunque, insomma, che si occupi di abbinare alle parole un’immagine, una musica, una suggestione.
Il testo redatto da un copywriter non è un risultato definitivo, ma soltanto uno dei materiali che si utilizzano per arrivare alla costruzione finale: una pubblicità d’effetto.
Questo comporta che, di per sé, un testo pubblicitario non ha valore autonomo, né estetico, né commerciale. Da solo non è utilizzabile, ma lo diventa con un trattamento (in genere) visivo.
La forza della tecnica di comunicazione pubblicitaria risiede proprio nella capacità di offrire, in uno spazio o un tempo molto ridotti, una notevole quantità di informazioni e di emozioni integrando due modalità espressive: quella verbale e quella visuale (a cui spesso si aggiunge una terza componente musicale).
Il risultato è un messaggio che si articola su più livelli: l’immagine (cioè tutto il comparto grafico, dalle foto ai font delle parti scritte), che viene percepita istantaneamente, serve a catturare l’attenzione, mentre il testo ha il compito di mantenerla.
Annamaria Testa, celeberrima pubblicitaria italiana, identifica 4 caratteristiche della scrittura pubblicitaria:
- È un ingrediente che viene impiegato per produrre un risultato finale fatto anche, ma non solo, di parole.
- La buona qualità della scrittura è necessaria, ma non sufficiente, a garantire la buona qualità del risultato finale.
- La qualità della scrittura è direttamente correlata alla sua minore o maggiore idoneità a integrarsi con un’immagine.
- La qualità della scrittura stessa può cambiare in relazione al mutare della qualità dell’immagine a cui viene associata.
Per cui, una volta che avrete ideato un buon testo, lo avrete integrato con una immagine bella e soprattutto efficace, avrete verificato che entrambi, testo e immagine, veicolino al meglio il messaggio che volete trasmettere e che, infine, tutto questo sia comprensibile e gradito al vostro target, allora potrete stare sicuri di aver fatto un buon lavoro.
Se non fosse che, quando si parla di pubblicità, aver fatto un buon lavoro non significa niente.
Quante campagne perfette sulla carta non hanno poi destato il benché minimo interesse del pubblico? Centinaia, migliaia, decimigliaia.
E quante pubblicità strampalate, invece, ci sono rimaste in testa come un chiodo fisso?
La verità è che quando si parla di annunci pubblicitari non c’è un modo univoco di verificarne la “bontà”.
Posto che una pubblicità deve far vendere, non è quasi mai possibile misurare con precisione gli effetti che una campagna ha sulle vendite. Questo perché ci sono molti altri i fattori che entrano in gioco: la distribuzione, il prezzo, la qualità del prodotto, il contesto in cui è venduto, la situazione del mercato ecc.
Nella pratica, quindi, una buona campagna pubblicitaria è quella capace di far sì che anche dei fattori avversi per il cliente (su tutti, tra quelli elencati sopra, un prezzo elevato) passino in secondo piano nel valutare pro e contro di un determinato acquisto.
Una buona pubblicità, per farla breve, deve fare il lavoro dell’illusionista e cioè indirizzare lo sguardo verso la magia che si sta compiendo e non verso l’asso che si nasconde nella manica.
Detto così può sembrare un’attività subdola, ma in effetti non lo è: non stiamo parlando di spacciare il falso per il vero o di promuovere prodotti o servizi scadenti.
Stiamo invece parlando di riaccendere negli occhi dello spettatore la stessa magia che hanno i bambini quando guardano un trucco di prestidigitazione.
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